Nel ventre della terra e nel sottosuolo della storia

Intervista ad Antonio Mocciola di Patrizia Boi

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In questo periodo storico difficile e pieno di sorprese, laddove il mondo si popola sempre più di poveri e derelitti, di uomini schiavi e sfruttati, diventa sempre più urgente rivolgersi a quei casi della storia che sono finiti nell’inferno dell’oblio. Dopo aver trascorso una vita in un mondo diabolico fatto di oscurità, alla ricerca della pietra nera che arricchisce gli sfruttatori, emergono storie dimenticate di ‘uomini nessuno’, spogliati di ogni loro sostanza.

In vario modo gli artisti hanno inteso documentare queste vicende, con l’urgenza di urlare all’universo degli inconsapevoli – che continuano a voler rimanere nell’ignoranza degli accadimenti – la verità della storia.

C’è chi lo documenta con immagini che non hanno bisogno di parole, come Giorgio Bianchi, c’è chi usa l’arma della denuncia come Marco Rizzo, chi quella dell’introspezione interiore. Oggi vogliamo prendere in considerazione un testo teatrale di Antonio Mocciola, intitolato Nel Ventre, Voci dal centro della terra, un monologo ispirato a fatti realmente accaduti: nel 1987, nell’indifferenza generale dei media, chiuse l’ultima miniera di zolfo in Italia, esattamente, in Sicilia, nel nisseno, dove negli anni si erano consumate numerosi morti di minatori. Il silenzio che cala su queste vicende è davvero inaccettabile perché i lavoratori non dovrebbero solo essere tutelati, ma come afferma Marco Rizzo, Segretario di Italia Sovrana e Popolare, che per anni si è battuto contro lo sfruttamento dei lavoratori e che ha dato voce alle vicende dei minatori sardi, belgi e spagnoli «Noi non vogliamo rappresentare i lavoratori: noi vogliamo renderli protagonisti».

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Antonio Mocciola, nel suo monologo, si pone dal punto di vista dello sfruttato rendendolo protagonista, si cala nelle sue vesti o meglio nella sua nudità di Essere inesistente e costruisce una narrazione serrata e senza momenti di tregua. Dalla voce dell’ultimo zolfataro, Sebastiano, viene narrata una storia scandalosa. Un ragazzo come tantissimi altri che hanno vissuto una sorte comune, entra nella miniera da “caruso” (ragazzino) ed esce uomo, «attraverso lancinanti esperienze di vita e lavoro, che lo forgeranno e lo cambieranno inevitabilmente. Costretti a lavorare dall’alba al tramonto, senza tregua, i minatori siciliani erano privati degli abiti, di ogni minimo diritto umano e con paghe da fame nera».

Vi immaginate se vi fossero sottratti i vostri figli per un prestito miserevole che dovrebbe essere restituito dal lavoro di un innocente?

Come ai giorni nostri la vita umana vale pochissimo per chi produce armi da guerra e le dirige verso uomini in carne ed ossa, anche agli inizi del secolo scorso, l’enorme richiesta di zolfo, dettata per lo più dall’esigenza di produrre polvere da sparo, determinò l’apertura di un gran numero di miniere, proprio nella zona centrale della Sicilia, che impiegò la schiera di contadini poverissimi che popolavano quei luoghi.

Salvo Lupo interpreta il “caruso” nel ventre della terra, immagine di Antonio Mocciola

Si trattava di un lavoro estremamente pericoloso e durissimo, fatto di strumenti di estrazione rudimentali come pale, picconi e ceste, usando la scarna schiena dei lavoratori per il trasporto del materiale. E come sempre tra gli sfruttati c’era anche chi comandava gli altri come un kapò: era il picconiere (pirriatauri), che aveva il compito di staccare il minerale dalle gallerie. E nel contempo sfruttava la manodopera a sua disposizione attraverso una forma di schiavismo feroce, impiegando ragazzi di età compresa tra i 7 e i 16 anni di età, i cosiddetti “carusi”. Erano bambini, prestati al lavoro per disperazione, dalle poverissime famiglie di contadini: lavoravano dalle 10 alle 16 ore al giorno, caricando sulle loro esili spalle carichi di 20-25 chili (per i bambini più piccoli) e fino a 70-80 chili per i ragazzi di 16-18 anni. Sapete come venivano pagati? In anticipo, le famiglie ricevano 100-150 lire, una specie di mutuo la cui rata era il lavoro dei loro figli, una cifra che non poteva mai essere riscattata vista la retribuzione bassissima del loro lavoro in modo da renderli schiavi a vita, questa formula era detta “soccorso morto”. E la morte era spesso il destino di questi minori che vivevano sottoterra senza vedere mai la luce del sole.

Salvo Lupo interpreta l’incubo di un “caruso” qualunque, immagine di Antonio Mocciola

«Uno scandalo protratto per secoli, fino alle chiusure degli impianti, che hanno lasciato disoccupazione e desolazione all’interno dell’isola».

Antonio Mocciola, attraverso l’attenta regia di Marco Medelin, rappresenta «l’incubo di un ragazzo qualunque, intrappolato in un inferno che non aveva previsto, vittima del sogno di un progresso solo illusorio, e di un’indipendenza che non avrà mai».

Il giovanissimo attore siciliano protagonista del monologo, Salvo Lupo, si immedesima in quel “caruso” qualunque, Sebastiano, recitando dall’inizio alla fine completamente nudo, proprio come quei lavoratori imprigionati nel ventre della terra, «rendendo ancora più scabroso e crudele il racconto di Sebastiano, le cui parole pesano come macigni sulla coscienza di un’Italia perduta, assassina di migliaia di suoi incolpevoli figli».

L’Italia, l’Europa, l’Occidente, ancor oggi, in modo differente da allora, stanno assassinando il lavoro, i diritti sociali, le famiglie, conducendo l’uomo contemporaneo sempre più in basso. Infatti, come afferma Marco Rizzo «La proletarizzazione nel Paese è cresciuta in maniera impressionante, al punto che oggi il ceto medio è talmente assottigliato che possiamo tranquillamente affermare che l’80-90% della popolazione vive del proprio lavoro e versa in condizioni di disagio. Eppure viviamo una situazione che ci vede di fronte a due fenomeni inversamente proporzionali: tanto più avanza la proletarizzazione del Paese, tanto meno la classe lavoratrice possiede coscienza di sé».

Il lavoro fatto da Antonio Mocciola che cosa tenta di fare invece? Cerca di far prendere coscienza di sé al suo ‘Caruso’, lo mette a nudo non solo fisicamente, ma anche nel suo travaglio interiore di lavoratore sfruttato e di essere insignificante, immerso nel buio della terra nera. Il reietto si confessa, osserva se stesso come attraverso uno specchio, con la lente dell’autore che ne mette a fuoco le paure, i dubbi, la sofferenza, le emozioni, i desideri, le speranze…

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Ma facciamoci raccontare qualcosa di più dallo stesso autore del testo che abbiamo intervistato per il Canale Becciolini Network, RIE Rete Informazione Europea.

Ultimamente ti sei dedicato alle miniere e alla vita dei minatori, sei legato a queste tematiche per una qualche eredità pratica oppure hai avuto l’urgenza di denunciare un mondo spesso sottovalutato?

«Sì, mi sembra incredibile che fino al secolo scorso ci sia stata questa forma di schiavismo così crudele. Eppure, eravamo in piena Europa. Nessuna eredità pratica, solo la compassione per il destino di tanti ragazzi che avrebbero potuto essere i nostri nonni, se avessero avuto il tempo di invecchiare».

Cosa ha significato per la Sicilia la chiusura delle zolfare avvenuta nel 1987? 

«Un inevitabile spopolamento delle aree interne, che bene o male (soprattutto male) almeno erano popolate. Il nisseno, l’ennese e l’entroterra agrigentino sono lande desolate. E le miniere abbandonate sono monumenti alla malapolitica».

Si tratta solo della perdita del lavoro per i 40.000 minatori che vi erano impiegati, oppure è stata una liberazione dallo sfruttamento di questo sottoproletariato di lavoratori indifesi e dimenticati da Dio?

«Quei lavoratori sono poi finiti in altri meccanismi, manovalanza della malavita. Non mi sembra un gran miglioramento. Non credendo in dio, penso siano semplicemente stati abbandonati dallo Stato».

Come nacque il fenomeno dei “carusi” siciliani?

 «Essere piccoli di statura consentiva di infilarsi negli angusti anfratti della terra. E poi le famiglie, che certo non si preoccupavano del controllo delle nascite, non potevano occuparsi di tutti i figli. E li vendevano, letteralmente, a dei capo-bastone criminali, a loro volta gestiti da imprenditori senza scrupoli».

Chi sono questi uomini-bambini, schiavi del lavoro, sepolti sottoterra e privati dalla luce dell’infanzia e spesso della vita?

«Sono gli immigrati di oggi, o i bambini che in Bangladesh cuciono al buio i palloni che poi un manipolo di milionari calcia in Qatar».

La nudità fa pensare all’idea di assenza di qualunque protezione, sono non-persone senza nemmeno il possesso della vita?

 «Sì, pure bestie. Ma era anche un fatto pratico. A quelle temperature i vestiti si sarebbero bruciati letteralmente sulla pelle, procurando ustioni permanenti».

Che fine hanno fatto la maggior parte degli schiavi bambini delle miniere?

 «I pochissimi che sono diventati adulti hanno dovuto convivere con invalidità permanenti, per le quali avevano sussidi ridicoli. La malattia più diffusa era la silicosi».

Il tuo Sebastiano è stato più fortunato a sopravvivere nel ventre della terra diventando adulto?

 «È un folletto, una talpa, uno smarrito. Non nasce e non muore, è ‘caruso’ per sempre, e racconta da un altrove. Una “ics” nel centro della terra».

Cosa può raccontare allo spettatore chi non ha mai posseduto nemmeno se stesso?

 «Bella domanda. Sebastiano esprime solo desideri e speranze, che poi sono illusioni. È un ragazzo pieno di fratture, come la terra che attraversa».

Quale metafora sottende la figura di ragazzo nudo prigioniero del mondo sotterraneo?

 «Un feto che sta per (ri)nascere. La terra lo trattiene per sé, come una donna che fatica a partorire. È l’aborto delle nostre cattive coscienze».

Quanto è attuale nel mondo di oggi questo tipo di schiavitù?

 «Purtroppo attualissimo. Ogni tanto, nei garage o nei sottoscala delle nostre città, spunta fuori in cronaca la presenza di decine di sfruttati, donne e minorenni, che vivono e lavorano in condizioni pietose. Se ne parla per un paio di giorni, poi tutto torna nel dimenticatoio».

A livello di Diritti umani cosa è stato fatto per questi martiri della storia?

 «I sindacati hanno fatto molto, ma tanto ancora c’è da fare. Al momento, mi sembra che la “coscienza di classe” sia démodé. Eppure non mancano sfruttamenti, emergenze e colossali ingiustizie. Penso alle disparità di salario tra uomini e donne, ad esempio».

Come ti sei trovato nella trasposizione in scena del tuo testo fatta dal regista?

 «Ho lasciato, come sempre mi accade, mano libera a Marco Medelin, di cui mi fido molto. Ho solo chiesto di lasciare il nudo integrale dall’inizio alla fine. È un’esigenza narrativa che, in questo caso, trovo imprescindibile. Questi ragazzi non avevano nulla. Nessun abito, e soprattutto nessun futuro».

Ti sei confrontato con il giovane attore protagonista del monologo?

 «Certo. Salvo Lupo ha un talento e un coraggio notevole. Non ha battuto ciglio sulla mia esigenza del nudo perenne, come fanno i veri attori. Ho cercato di coinvolgerlo soprattutto sul piano emotivo, spingendo sulla sua verace sicilianità».

Cosa diresti ai giovani di oggi per spingerli a conoscere questi fatti attraverso uno spettacolo?

 «La storia d’Italia è tutta costellata di luci e di ombre, che spesso la scuola rende ostiche e noiose da conoscere. Il teatro può servire a stimolare».

 Qual è stato il messaggio veicolato dal tuo monologo? Corrisponde a quello del regista?

 «Vorrei che ci si innamorasse del destino dei più fragili, senza sentirsi al riparo o lontani da queste figure. Servirebbe a sviluppare più attenzione, e sana (non pelosa) compassione verso chi ha pagato col proprio sangue lo sviluppo e il benessere di cui godiamo adesso. Credo che anche Marco sia d’accordo con questa che, con molta umiltà, definirei missione».

Chi dovrebbe venire a Teatro e perchè?

 «Chiunque abbia desiderio di capire meglio la cruda verità della vita, attraverso la finzione dell’arte».

Per chi volesse comprendere meglio la vicenda, lo spettacolo sarà portato in scena a Roma al Teatrosophia (via della Vetrina 7) DA GIOVEDI’ 15 A DOMENICA 18 DICEMBRE (Da Giovedì a Sabato h 21:00; Domenica h 18:00).

 




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