IL “RAVE” DELLA POLEMICA DELLE “GENERAZIONI PERDUTE”

Ascolta “10/11/2022 AUDIO ARTICOLO DI RUGGIERO CAPONE” su Spreaker.

Al partito delle regole e del moralismo, come da consolidata abitudine, si ha accesso dalla porta girevole. Così chi passa da opposizione a governo s’erge a duro paladino delle regole, mentre chi ora in minoranza s’attacca anche ai “rave”, dimenticando d’aver invitato la gente a denunciare il vicino di casa che festeggia. Sarebbero ottimo spunto, sia per il ministro Matteo Piantedosi che per l’opposizione tutta, leggere gli atti dannunziani della Reggenza italiana del Carnaro, quindi ripassarsi la proverbiale lezione di Pasolini sui giovani e l’omologazione, e per finire l’atto di proclamazione dell’Isola delle rose da parte dell’ingegner Giorgio Rosa. In poche parole capire cosa significa essere giovani, sognare in maniera veloce atti di ribellione e libertà, quindi contrastare le regole dei vecchi, e di tutti coloro che in nome e per conto della normalizzazione borghese della società gradirebbero giovani lenti e vestiti come anziani, impediti nei movimenti e nella febbre di vivere la vita.

Ottimo cenno e sintesi per capire giovani e vecchi (e non sono affatto categorie anagrafiche) potrebbe passare per la visione de La rabbia giovane di Terrence Malick. Perché è importante capire o non dimenticare il connubio tra gioventù ed insoddisfazione, voglia di andare oltre e di desiderare (almeno per chi scrive) qualsiasi donna di variegate età, di correre a piedi od in moto, di menare chi ci contrasta. L’impressione è che per governare il mondo contemporaneo necessiti dimenticare d’essere stati giovani o, peggio, non esserlo mai stati per davvero. E si badi bene che non si vuole affatto inneggiare alla cultura dello sballo, all’affare della droga od alle orge come ragione di vita. Semplicemente testimoniare come i vecchi desiderino manipolare la vita e le scelte dei giovani, e non parliamo dei “vecchi di potere” che sognano di soggiogare tutta l’umanità. Da quando è iniziata la pandemia su giornali, tivù, social ed internet ci viene continuamente ripetuto di obbedire alle regole stabilite dal potere: una qualche voglia di ribellarsi potrebbe pure sbocciare nell’animo di pochi? E sono sempre troppo pochi. Nel capolavoro di Malick il ribelle viene condannato a morte e la sua amata data in sposa al figlio d’un vecchio avvocato: lezione chiara, cioè che i giovani sono vitali e forti ma alla fine vince il vecchio con le sue regole di morte.

Questa lezione l’aveva capita a suo tempo l’ingegner Giorgio Rosa che, il primo maggio del 1968, proclamava a largo di Rimini lo Stato indipendente dell’Isola delle rose: in pieno Adriatico, al di fuori delle acque territoriali italiane. L’Isola delle rose si dava una sua lingua, un governo, una moneta ed un’emissione postale. A giugno del ’68, negli uffici oggi occupati da Piantedosi veniva deciso il blocco navale dell’isola (una ex piattaforma di ricerca in acciaio). Nel 1969 i militari italiani mettevano fine alla genesi utopica di una Repubblica, obbedendo all’ordine d’arresto di Rosa e sodali e, soprattutto, bombardando la piattaforma in acque internazionali e con il permesso dell’Onu (i vecchi tutti d’accordo).

Antesignano di questa lotta novecentesca tra giovani e vecchi è stato Gabriele D’Annunzio, che nel 1920 istituiva l’entità statuale provvisoria della Reggenza del Carnaro. Lo faceva all’indomani della fine del primo conflitto mondiale: perché gli abitanti di Fiume (che parlavano italiano) volevano far parte del Regno d’Italia e non d’una entità a mezzo tra ex Impero austro-ungarico e Jugoslavia. Volevano essere italiani perché avevano il convincimento che dalle nostre parti ci fosse la loro identità e, soprattutto, maggiore libertà di lavorare e creare. D’Annunzio aveva sognato una repubblica, e questo non piaceva ai vecchi, a cui non bastava nemmeno la scusa che il gesto avrebbe preparato l’annessione della città al Regno d’Italia. Infatti la reggenza terminava con il Trattato di Rapallo che, mentre parlava della creazione dello Stato libero di Fiume, di fatto incaricava l’esercito del Savoia di verificare l’applicazione delle regole: così lo scioglimento della reggenza si consumava dopo un violento scontro tra esercito regolare e dannunziani.

La Reggenza era stata ufficialmente dotata di una costituzione (la Carta del Carnaro): scritta dal capo di gabinetto Alceste de Ambris e rielaborata dallo stesso d’Annunzio. Lo statuto di fatto era il primo atto concreto del modello utopistico di società, integrato dalla pratica dell’età comunale e dal corporativismo. Era una sorta di vittoria aristotelica delle leggi della polis, e nella migliore tradizione municipale. Ma all’esperimento non venne mai dato il tempo di farsi pratica. Non ebbe nemmeno importanza che i ribelli (legionari fiumani) avessero proclamarono l’annessione della città al Regno d’Italia. Il Governo Giolitti, in nome della normalizzazione, e di quanto stabilito a Rapallo dalle potenze vincitrici della guerra, ordinava al generale Pietro Badoglio (nume tutelare di tutti i vecchi) di tagliare ogni approvvigionamento di viveri ai fiumani. E, dopo la carestia, passarono anche alle maniere violente: il mattino della vigilia di Natale del 1920 veniva sferrato l’attacco da parte dell’esercito italiano, e con circa una cinquantina di vittime tra i giovani sognatori. Il Natale 1920 veniva festeggiato a Fiume col bagno di sangue, e l’allontanamento dei legionari si perfezionava il 30 dicembre. Fiume aveva sempre goduto di secolare autonomia e libertà, e questo non era mai stato messo in discussione dalla Serenissima Venezia prima e dagli Asburgo poi. L’annessione in maniera violenta avrebbe di fatto inasprito i rapporti tra italiani e minoranze slave e tedesche, mentre lo statuto di città indipendente permetteva la mediazione con i vari brandelli jugoslavi dell’ex Impero centrale asburgico. D’Annunzio era riuscito ad arruolare nell’impresa sindacalisti rivoluzionari, anarchici, arditi, poeti omosessuali, avventurieri di buone letture e, soprattutto, militari che avevano combattuto per l’Italia. Insomma, un gigantesco “rave”: perché in quei giorni a Fiume la gente cantava e scherzava per le strade, forse beveva e si dava anche a droghe. Ma poi sognava e progettava un futuro, osando e senza limiti borghesi, la società senza steccati sociali.

Ma i vecchi vincono sempre, soprattutto sanno stare a destra a sinistra ed a centro. Passano gli anni e le critiche alla società dei vecchi manipolatori tornano a farsi sentire negli scritti di Pier Paolo Pasolini, radicale nei giudizi quanto D’Annunzio e Malick. Quindi ci chiediamo, partendo dal presupposto che non siamo tutti uguali, come si possa reprimere la voce della coscienza, il travaglio interiore dell’anima, e la sofferta sensibilità che caratterizza molti di noi. Perché la società omologante di oggi chiede questo ai giovani. Chiede di reprimere il “rave” che è in ognuno di loro (di noi) per accettare di celebrare una falsa felicità e serenità sui “social” o negli “happy hour”. Lo stesso Pasolini aveva previsto che attivisti, figli e nipoti del ‘68 si sarebbero poi dimostrati borghesi omologatori e repressori.

Oggi i plausi e le polemiche su feste di giovani, movida e “rave” fatte dai soliti “soloni professionali” ricordano non poco la critica marxista a Ragazzi di vita Pasolini. Ci ricordano il processo al libro di Pasolini, che vedeva in maniera trasversale uniti nella condanna destra, sinistra e centro. E l’assoluzione in tribunale arriverà solo dopo le testimonianze di Carlo Bo e Giuseppe Ungaretti. Così, mentre la gente borghese, la politica ed i giornali condannavano il poeta ed i giovani, Carlo Bo scriveva che “l’opera è ricca di veri valori religiosi e spinge alla pietà verso i poveri ed i diseredati… i dialoghi sono dialoghi di ragazzi e l’autore ha sentito la necessità di rappresentarli così come in realtà”. Ma, solo dopo la sentita lettera di Giuseppe Ungaretti, i magistrati proscioglievano Pasolini.

Essere ribelli ed avventurieri è un sentire che non possiamo negare al nostro animo. Ai giovani di oggi viene negato il diritto a dissentire e ribellarsi, perpetrato attraverso un subdolo arruolamento nei social e poi nel conformismo tecnologico. I giovani d’oggi vivono nella negazione della “Beat Generation”, e temono finire ai margini qualora rifiutassero le norme imposte dai vecchi. La socializzazione giovanile è il richiamo della coscienza, è l’innato rifiuto del materialismo: ma questo non piace ai vecchi accumulatori di danaro. Ecco perché viene represso quel sentimento di non adesione alle convenzioni del potere che ha permesso l’opposizione alla guerra del Vietnam, che ha permesso agli hippy di Woodstock di celebrare i loro grandi “rave”. La lezione di Jack Kerouac e Charles Bukowski ci racconta di giovani sofferenti, dediti all’alcol ed alla droga, di poeti che vorrebbero condividere le loro canzoni con l’umanità, contrabbandando l’amore con la guerra. Ma si rivelano incompresi, perché è destino delle intelligenze dei più perdersi. Tutte “generazioni perdute”, “gioventù bruciate”, perché solo pochi possano governare in Terra. Volendo ai disperati è rimasto solo un “rave”.

Ruggiero Capone

Pubblicato su L’Opinione delle Libertà




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