

L’uscita di scena teatrale e inelegante di Ruggero Capone dalla diretta dell’altra mattina “Capone risponde” mi offre il destro per una riflessione laterale ma non troppo, dal momento che il tema dei soldi è il punto caldo dell’informazione indipendente. Sia chiaro: non getto la croce su Capone. Momenti di difficoltà capitano a tutti nella vita, tanto più se ti fai un mazzo quadro per studiare e documentarti e raccogli le briciole.
Briciole che nei rovesci della vita – una causa giudiziaria, rifarsi l’impianto dal dentista, la perdita del lavoro, la bolletta del gas – non bastano nemmeno a pensare di farvi fronte dignitosamente. Posso assicurare – ci sono passato e qualche volta ci sguazzo ancora – che ti assale una rabbia lavica alla Cecco Angiolieri: “S’ i’ fosse foco, ardere ’l mondo”. Uno non dovrebbe cedere, ma come diceva quel cretino (che aveva ragione): la tentazione è forte, la carne debole, la misericordia di Dio infinita.
Di più: tutti quelli che frequentano le plaghe dell’informazione indipendente, perché la fanno o perché ne beneficiano, sono incazzati, battuti, umiliati, impoveriti. Ditini alzati nel fodero, quindi. Quelli li lasciamo ai Draghi, ai Monti, ai Prodi, alle Von der Leyen, ai Mattarella. Ne facciano l’uso che ritengono più praticabile, non è cosa per noi.
Non più tardi di qualche giorno fa lo stesso Becciolini aveva lanciato un appello a sostenere il canale, auspicando di trovare quello che lui ha definito “finanziatore etico”. Le donazioni liberali coprono nella migliore delle ipotesi le spese di gestione (attrezzatura e manutenzione hardware, traffico web, aggiornamento software eccetera) e nella peggiore nemmeno quelle. Certo non ripagano l’enorme lavoro, la fatica che si fa ogni maledetto giorno per offrire al pubblico un servizio decente.
A chi pensa che i canali si mantengano con le inserzioni pubblicitarie, i profitti da YouTube, Rumble e via dicendo, consiglio di approfondire l’argomento: faranno delle interessanti e amare scoperte. È il caso allora di prendere atto della realtà nuda e cruda, per quanto spiacevole.
Prima constatazione. Le persone non sono più disposte a pagare per l’informazione. Con persone intendo “tutte le persone”, con informazione intendo “tutta l’informazione”. I dati al riguardo sono impietosi, e riguardano sia l’editoria mainstream – televisione, radio, giornali, libri – che quella indipendente e corsara. La prima sta a galla perché il sistema elargisce noccioline alle scimmie, di fatto l’impatto della “narrazione dominante” sopravvive solo per il monopolio della forza che le guarda le spalle. Colpa dei social media? Certamente. Colpa di questo, colpa di quello, la cosa sta in questi termini.
Seconda constatazione. Le persone non hanno tempo, e il tempo che hanno lo spendono per sopravvivere e distrarsi. La verità è che nessuno scoppia dalla voglia di sapere perché la sua vita fa schifo. Figuriamoci pagare per saperlo: è come se compiuti i sessant’anni vi arrivasse a casa la promozione della Dracula Pompe Funebri con la proposta di pagare la vostra bara in comode rate, la corona di fiori è omaggio. Grazie ma no, grazie.
Terza e ultima constatazione. L’editoria, la cultura, l’informazione, la comunicazione come le conosciamo e intendiamo nascono nel contesto borghese. La borghesia – la fantomatica “classe media” – è morta e stramorta e la carcassa fete che è un dispiacere. Questo è un dato epocale: come l’antico servo della gleba nemmeno sapeva leggere e scrivere, così il moderno servo del globo è un analfabeta funzionale di prima grandezza a cui l’informazione, e men che mai il pensiero e il sapere, non fanno neanche vento. Estinta la borghesia, si estinguono l’informazione, la cultura, ogni bene immateriale.
Fateci caso: gran parte della tecnologia è stata usata per azzerare la carta stampata (con la scusa di tutelare i poveri alberi), stroncare il settore musicale, ammazzare teatro e cinema. Queste sono state le prime vittime della rivoluzione digitale. Adesso è la volta dell’intelligenza artificiale, che Noam Chomsky ha definito “il più grosso furto di proprietà intellettuale della storia umana”.
Rimossi i presupposti immateriali veicolati dall’arte, dalla letteratura, dalla fisicità dell’informazione stessa – un giornale, un saggio – azzerati complice la pandemia quei micro-convivi, quelle piccole piazze che erano una serata a teatro, in pizzeria, al cinema, rimuovere i diritti e il contante è stato un gioco da ragazzi. Come sarà un gioco da ragazzi spedire i ragazzi al fronte a farsi ammazzare.
Mentre scassinavano il lavoro intellettuale riducendolo a fatto amatoriale, cioè rendendo tutto accessibile e gratuito, nessuno si è preoccupato più di tanto, perché il sapere è stato ridotto ad entertainment. Ormai di parla di “infotainment”, l’informazione che distrae, che intrattiene. Un’alternativa come un’altra alla pornografia o ad altre forme di abbrutimento, qualcosa che “fa fino e non impegna”.
Non è vero che la gente non legge più, ad esempio: legge molto più di prima, ma non è più disposta a pagare per farlo. L’aver ceduto su questi aspetti fondamentali, l’aver concesso che ci derubassero della tragedia, della commedia, dell’opera lirica, insomma di tutte le forme di rappresentazione della nostra civiltà ci ha ridotti in balia delle più terrificanti distopie che si siano mai viste. E la colpa purtroppo è anche nostra.
La maggior parte della storia umana è caratterizzata dall’oscuramento dell’informazione e delle belle cose che sono il pensiero, il sapere, la civiltà: l’uomo in quasi tutti i tempi ha consumato la vita lì dov’era, in pochi chilometri quadrati, come se nulla intorno a lui esistesse davvero. È partendo da questa prospettiva all’apparenza ignobile e desolata – ma tutt’altro che questo – che tutte le civiltà sono fiorite. Nell’oscurità dell’ignoranza apparente.
Francamente m’importa poco sapere se o chi condivide questi giudizi, o perdere tempo a spaccare il capello sulle cause. Il punto è: che fare? La risposta è: fare politica. Fare politica come se fosse l’unica cosa che conta, come se la politica ci facesse vivere in eterno, come se guarisse il cancro o riportasse in vita i morti.
Con questo non intendo fondare un partito – ce ne sono molti, alcuni pessimi, altri buoni – né schierarsi politicamente, entrare in parlamento o cose simili. La politica in senso aristotelico è recuperare la capacità di stare insieme in modo ordinato ad un destino positivo. Dopo deve venire – dopo viene – la rappresentazione di questa politica, di questo stare insieme.
Per decenni la politica è stata presentata come qualcosa di corrotto, immorale, pericoloso. Dal momento che la politica è un bisogno primario e al tempo stesso tempo un’attitudine innata, i risultati misurabili e miserabili sono tre: per eterogenesi dei fini, l’affermarsi di una classe dirigente realmente corrotta, immorale, pericolosa. In seconda battuta l’astensione dal voto e soprattutto il rifiuto della partecipazione alla vita politica, civile, sociale e culturale.
Da ultimo il fatto di subire senza reagire qualsiasi porcheria ci scaraventino sulla testa. Senza politica non c’è informazione, né cultura, né civiltà, né cibo in tavola. Non lamentiamoci se politici come Georgescu vengono espulsi dalla vita politica nei loro paesi. La colpa è un po’ anche nostra, e della nostra friabile determinazione. In altre faccende affaccendati, non ci siamo accorti che ci stavano portando via tutto.
Chi informa lealmente offre alla comunità un servizio conviviale, cioè aiuta la gente a unirsi, a stare insieme, a battersi per qualcosa di nobile. Non si tratta di donare qualche euro a Becciolini o sostenere Capone in un momento di disagio, con quella carità pelosa che lascia il tempo che trova e il più delle volte allunga l’agonia di quello che affoga. Si tratta di manutenere e ricostruire questa civiltà in pezzi di cui tutti siamo figli e alla quale dobbiamo tutto.
Gli appelli di Becciolini al sostenere il canale, il grido di rabbia di Capone non vanno derubricati ad episodi particolari più o meno opportuni, ma toccano la radice stessa della temperie che stiamo attraversando. Perché non ripagare chi rende questi servizi significa ammettere implicitamente che non valgono nulla, che sono inutili.
L’alternativa beninteso esiste. La descrive bene Martin Niemöller in questi versi famosi:
«Quando i nazisti presero i comunisti, io non dissi nulla perché non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico. Quando presero i sindacalisti, io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi presero gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa»