CONGO sull’orlo del BARATRO: guerra, tradimenti e lo spettro della SPARTIZIONE

Goma in fiamme, l’M23 avanza e il governo cede: il Congo rischia di frantumarsi tra guerra, ingerenze straniere e la corsa alle sue risorse minerarie.

Congo: la piccola guerra feroce che minaccia di deflagrare in un boato gigantesco
Il conto dei morti a Goma – approssimativo – è salito ad oltre 3000 vittime. La città capitale del Nord Kivu è stata presa il 27 gennaio scorso dai ribelli dell’M23 senza che l’esercito regolare congolese, indebolito da scelte politiche figlie dell’accordo segreto fra Tshisekedi e Kagame, abbia opposto resistenza. L’abbandono degli arsenali da parte delle FARDC, che corrispondono a circa ai tre quarti della – modesta e immiserita – capacità bellica del Congo stanziata ad est, militarmente ha messo in ginocchio un paese già provato da scelte politiche riconducibili alla personale visione del presidente, il quale si è circondato di una nutrita schiera di yes men.

Soldati dell’M23 a Goma

L’M23, il movimento ribelle finanziato ed armato dal Rwanda di Paul Kagame, minaccia da vicino Bukavu, capoluogo della provincia del Sud Kivu. Nel Nord Kivu, la provincia di Goma, il capoluogo provvisorio è stato spostato a Beni, città del nord al confine con l’Uganda, dove ieri si è recato il vice primo ministro e ministro della difesa Kabombo. Il deputato localmente eletto Mbindule, in missione col ministro, ha dichiarato: “Vogliamo imporre la pace con la forza”.

Paul Kagame

Si fa prima a dirlo che a farlo. Il presidente Tshisekedi è accusato dalla società civile di aver venduto il paese alle potenze straniere: il Rwanda anzitutto, e dietro al Rwanda le ombre tetre del Regno Unito e dell’Unione Europea. Entrambi hanno assoluto bisogno dei minerali presenti nelle regioni contese (Nord Kivu, Sud Kivu e prossimamente Ituri) per perfezionare la transizione verde e digitale: litio, cobalto, cadmio, rame, coltan, forse persino l’uranio del Katanga, la provincia a sud-est che insieme a quelle citate completa la Rift Valley, un concentrato di minerali strategici con pochi eguali al mondo.

Considerato che la Cina si è garantita fonti di approvvigionamento stabili – oltre alla propria ricchezza interna – grazie a proficui accordi di mutua cooperazione (infrastrutture e reti contro minerali), a Regno Unito e UE non resta che assicurarsi lo sfruttamento opaco delle risorse minerarie congolesi per non dipendere da Russia e Cina, o peggio ancora dai generosi americani, a loro volta in affanno per ciò che concerne l’approvvigionamento di semiconduttori e chip da Taiwan.

Il presidente Tshisekedi

Si susseguono frenetiche riunioni pleonastiche. Il presidente Tshisekedi assicura un’imminente commissione d’inchiesta Onu: accertate le atrocità commesse dai ribelli, quale sarebbe il passo successivo? Sanzioni al Rwanda, nel caso difficilmente votate dai player occidentali che soffiano sul fuoco? L’esito del summit EAC-SADC (organismi che riuniscono rispettivamente gli stati africani dell’est e del sud) è l’invito al ritiro unilaterale delle forze armate “non invitate” dal suolo congolese, come dichiarato dal presidente sudafricano Ramaphosa. Il fatto è che non siamo in presenza di un esercito regolare, ma di un movimento ribelle che è a tutti gli effetti l’esercito di riserva rwandese non riconosciuto sul piano internazionale, e negato con forza dallo stesso presidente rwandese Kagame. Per quale motivo dovrebbero attenersi alla richiesta?

Sul fronte interno il presidente congolese ha chiesto l’appoggio delle forze politiche di opposizione. Martin Fayulu, il grande sconfitto delle elezioni del 2018, ha aderito forse ottenendo garanzie politiche sulla sua elezione nel 2028: considerata la scarsa propensione di Tshisekedi a rispettare i patti, la scelta appare ingenua. Anche fosse, Fayulu dovrebbe riflettere su che paese si troverebbe a governare, ammesso e non concesso che il Congo esista ancora come lo conosciamo. È possibile che Fayulu abbia garantito appoggio a Tshisekedi per convenienze molto più vicine nel tempo, e ben più modeste.

Martin Fayulu,

Joseph Kabila, ex presidente e leader del PPRD, ha invece declinato chiedendo le dimissioni immediate di Tshisekedi. Un’eventuale destituzione del presidente – sia pacifica che violenta – in mancanza di accordi equilibrati fra le parti in commedia rischia soltanto di alimentare la tempesta perfetta in corso. La storia congolese è complessa e attraversata da forze di difficile interpretazione, specie per la nostra mentalità.

Joseph Kabila

Corneille Nangaa

C’è invece un retroscena interessante che riguarda Corneille Nangaa, il referente politico dell’AFC (Alleanza del Fiume Congo), la federazione che raggruppa gli oltre 120 gruppi ribelli nell’est del paese. Nangaa è stato presidente della CENI, la commissione elettorale indipendente che ha certificato il broglio che ha portato Tshisekedi alla presidenza. Voci bene informate ed insistenti affermano che Nangaa avrebbe ottenuto diverse concessioni minerarie in cambio dell’avallo al broglio, ma queste gli siano state revocate da Tshisekedi in persona una volta insediato.

Nangaa dunque sarebbe passato all’opposizione armata per interesse personale. Vale richiamare il fatto che Nangaa, presidente CENI dal 2015 al 2021, era stato nominato con il nulla obsta dell’uscente governo Kabila, il quale provò in seguito a cambiare la Costituzione fra il 2015 e il 2017 cercando di garantirsi un terzo mandato consecutivo. In prospettiva Nangaa avrebbe dovuto certificare la rielezione di Kabila, non di Tshisekedi. È lecito supporre che fra Nangaa e Kabila esista una familiarità politica tornata attuale: in fondo, sono stati entrambi traditi dal nuovo presidente. Fra lo stesso Tshisekedi e Kabila sussisteva un accordo politico che si era tradotto nella coalizione Cach fra l’UDPS, il partito di Tshisekedi, e il PPRD di Kabila, poi abbandonata da Tshisekedi in favore della tonitruante Union Sacrèe pour la Nation.
Mattia Spanò

Per approfondimenti sulla questione congolese guarda l’intervista a Mattia Spanò del 6 febbraio 2025

Mattia Spanò: Le mani sul Congo io

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