

Von der Leyen e il presidente rwandese Paul Kagame
L’antesignano politico che ha scatenato la guerra ibrida fra il Congo Democratico e il Rwanda risale al 2015. L’allora presidente Kabila, in scadenza di mandato, tentò una riforma costituzionale per garantirsi un’ulteriore elezione – e forse più d’una – nonché l’immunità in quanto senatore a vita ed ex presidente. Il primo obiettivo politico fallì: l’Assemblea Nazionale bocciò la proposta dei kabilisti, garantendo però al raìs l’immunità da azioni giudiziarie successive la sua decadenza. Azioni che avrebbero potuto intaccare il controllo dell’enorme mercato minerario congolese facente capo ad un unico uomo e al suo clan: Joseph Kabila Kabange.
Eletto in modo fraudolento Tshisekedi con l’appoggio di Kabila e soprattutto del suo manutengolo alla Commissione Elettorale Nazionale Indipendente, quel Corneille Nangaa oggi a capo dei ribelli dell’AFC, fra il vecchio e il nuovo presidente si stabilì un accordo segreto: Tshisekedi avrebbe governato un mandato, consentendo a Kabila di essere rieletto dopo una pausa di cinque anni. Kabila controlla direttamente o indirettamente la quasi totalità dello sfruttamento delle risorse minerarie del paese. Il padre Laurent Desirée Kabila, assassinato nel 2001, aveva nazionalizzato le imprese minerarie. Il figlio, succedutogli per acclamazione (era Capo di Stato Maggiore dell’esercito) si ritrovò per le mani un tesoro immenso. Nel 2003 firmò in Sudafrica un accordo con Kagame: i minerali preziosi sarebbero stati estratti in Congo ed esportati in Rwanda. Da lì, avrebbero preso il volo per i mercati più ricettivi, cosa che è puntualmente avvenuta.
La guerra a bassa intensità fra Congo e Rwanda ha sempre avuto due scopi: il primo, allontanare eventuali investitori “indesiderati” che minassero il duopolio vigente, mantenendo il paese in condizioni di sottosviluppo cronico. Il secondo, creare una pressione ribassista (dumping) sui prezzi: la metà della produzione estrattiva è d’origine artigianale, ma è la parte che garantisce i maggiori profitti. Sotto la minaccia delle armi, i micro-produttori e le comunità locali sono costrette a rivendere i minerali ad una fitta rete di intermediari spesso protetti dall’esercito regolare congolese, con ribassi anche del 90% sul valore di mercato. Alle multinazionali che controllano la produzione mineraria industriale, l’opacità e l’insicurezza consentono di commerciare ingenti quote di minerale off the label, evadendo cioè le quote dichiarate al mercato al fine di tenere i prezzi artificiosamente alti, assicurandosi così margini di profitto impensabili nei mercati sviluppati ormai saturi di offerta.
Nel quadro appena descritto Tshisekedi, lungi dall’essere un liberatore interessato alle sorti del suo popolo, tradisce gli impegni con Kabila e indirettamente con Kagame. Inoltre decide di abbandonare l’esercito a se stesso per non ritrovarselo contro: stop alla fornitura di armi, stop alla formazione, nuovi reclutamenti al minimo, confinamento dei militari fedeli a Kabila lontano dalla capitale, nell’est del paese. Apparentemente Kabila accetta questa situazione, benché l’indebolimento dell’esercito coincida col rischio di prestare il fianco a Kagame, il quale potrebbe approfittarne.
Ma il vero trigger politico è la decisione di Tshisekedi di attuare una nuova riforma costituzionale tramite la quale togliere l’immunità a Kabila, esponendolo a procedimenti giudiziari ed inchieste anche internazionali. Il vecchio pallino post-coloniale della divisione del Congo in almeno due paesi, come accaduto col Sudan, si avvicina al passo dell’oca, complice la trascuratezza del sistema di potere che governa il Congo.
La proposta di riforma costituzionale fa capolino nell’ottobre 2024: Tshisekedi, forse convinto di godere di simpatie occidentali per sua sfortuna inesistenti, valica la linea rossa. Il 27 gennaio 2025 i ribelli dell’M23 prendono Goma, terza città del paese, senza incontrare resistenza e da lì dilagano nel Sud Kivu, prendendo un mese dopo anche il capoluogo Bukavu. La presa del Nord Kivu e del Sud Kivu significa controllare il 100% delle ricchezze minerarie strategiche attualmente note in Congo. Considerato che il Congo detiene l’80% della produzione mondiale di coltan, indispensabile nella produzione di semiconduttori, lo scopo dell’ennesimo conflitto tribale africano dovrebbe apparire chiaro anche ad un cieco. Peccato che la guerra nel Congo non sia né tribale, né africana.
Già, perchè nel 2024 la Commissione Europea ha siglato un accordo con il Rwanda per migliorare lo sfruttamento minerario del paese (naturalmente “sostenibile”), paese privo di risorse minerarie come certifica anche il Dipartimento di Stato americano. Quelle che servono, in particolare terre rare, coltan e minerali per la fabbricazione delle batterie come cadmio, litio e cobalto, arrivano dal Congo. Una pioggia non meglio quantificata di miliardi che sarebbe stata ripagata in forniture di minerali strategici ad un prezzo estremamente favorevole, e senza esporsi al rischio di rigurgiti sovranisti come quello che spinse Kabila padre a nazionalizzare le imprese minerarie straniere operanti in Congo. Tutt’altro che inoperoso, il Regno Unito firma un accordo di cooperazione militare con il piccolo paese centro-africano per migliorarne la difesa (sic), e dall’altra attraverso il Rwanda Bill prova a deportare in Rwanda 56mila immigrati clandestini arrivati in Inghilterra dal 2022 – per lo più afgani, siriani, dal Siam e dal Deccan – fornendo potenziale carne da cannone.
In Congo il Rwanda agisce armato dal Regno Unito mentre l’UE ne raccoglie i benefici. In Ucraina il rapporto si capovolge: Ursula Von der Leyen chiede a gran voce 800 miliardi per finanziare il riarmo dei paesi membri a difesa dei “nostri valori”. Von der Leyen che, da ministro della Difesa in Germania, finì al centro di uno scandalo sulla gestione del budget dell’esercito tedesco prontamente insabbiato, con l’immancabile coté di sms spariti dal cellulare della signora. Schema identico a quello adottato per l’acquisto dei vaccini: centrale unica di acquisto, gestione monocratica e dirigista con rendicontazione lacunosa, prove di potenziali malversazioni fatte sparire. La signora ci riprova, senza troppa fantasia.
Nel frattempo gli inglesi siglano un patto per migliorare i fattori di produzione mineraria ucraina (naturalmente “umanitari”) come si legge nel terzo pilastro dell’accordo al punto 6. Si tratterebbe delle stesse terre rare, più in generale minerali strategici indispensabili alla transizione verde e digitale oggetto dell’accordo imminente fra gli Stati Uniti e l’Ucraina. Il chiasmo di interessi è quasi clamoroso, la divisione dei compiti speculare, le responsabilità storiche da seppellire sotto qualche igienico comunicato stampa.
L’obiettivo dichiarato dalla UE scopertasi guerrafondaia è difendersi dal presunto dilagare militare della Russia. Più umilmente la “difesa comune” sarà utile sia a far applicare le direttive UE ai paesi membri recalcritranti (come suggerito nel Manifesto di Ventotene), e perché no riavviare una politica neo-coloniale in Africa. La pacifica, valoriale ed inclusiva UE non è in grado di produrre armi all’avanguardia, ma può produrne di abbastanza efficaci per alimentare conflitti tribali nei paesi sottosviluppati. Tutto considerato, fatto esiziale, nessuno può nulla contro burocrati non eletti che manipolano con estrema disinvoltura e a proprio vantaggio le regole del gioco.
Il sospetto che Zelensky, per cavarsi d’impaccio, come Totò stia vendendo il Colosseo senza possederlo per giunta a due acquirenti diversi – Regno Unito e Stati Uniti – è fondato. L’imminente sottoscrizione dell’accordo fra Trump e Zelensky sulle terre rare suggella il teatrino consumato alla Casa Bianca, messo in scena a beneficio di opinioni pubbliche occidentali ormai catatoniche. Ma sancisce anche l’esclusione della UE da questa premessa fondamentale per la digitalizzazione dei servizi e il controllo della popolazione. Il tema rilevante è che né l’Ucraina né il Rwanda sono dotati di questi minerali essenziali per l’Unione Europea, e in misura minore per il Regno Unito il quale tuttavia resta a capo del Commonwealth di cui fanno parte, oltre al Rwanda stesso, potenze minerarie ricchissime come il Canada, l’Australia, il Sud Africa, l’India e il Pakistan.
A questo punto è lecito formulare qualche ipotesi sugli sviluppi di questo groviglio malsano di interessi più o meno occulti. Ci sono tre superpotenze (Russia, Stati Uniti e la troppo spesso dimenticata Cina) che non hanno interesse nell’inasprimento dei conflitti poiché dispongono di una forza militare schiacciante, un livello di interdipendenza tecnologica altissimo e ampia disponibilità delle risorse naturali necessarie a garantirsi i livelli di sviluppo e le ambizioni desiderate. Dall’altra, due potenze che hanno investito tutto in politiche “cul de sac” senza disporre direttamente delle risorse necessarie alla loro messa a terra: Unione Europea e Regno Unito.
Mentre il Regno Unito potrebbe cavarsela per legami storici post-coloniali ma resta esposto al forte rischio di una guerra civile interna, il destino dell’Unione europea focalizzata sui tappi saldati alle bottiglie di plastica, deindustrializzata e senza energia a buon mercato sembra segnato. A meno che le centrali della propaganda “ueropea”, fabbriche di pacifismo anencefalico, non vengano rapidamente convertite alla produzione di bellicismo acritico.
L’Ucraina è già detenuta e lottizzata da Stati Uniti e Russia, mentre in Africa – e in particolare in Congo – la partita è ancora aperta. A conferma di questo scenario più che plausibile, vale a dire la transumanza del conflitto dalle fredde pianure ucraine alle umide foreste del Congo, il fatto che non poche delle armi fornite all’Ucraina abbiano preso la via dell’Africa. L’Ucraina del resto funziona come hub di smistamento delle armi in Africa almeno dal 2010. Il teatro bellico ucraino verrà pacificato, volente o nolente. Il conflitto si sposterà nell’Africa sub-sahariana, a distanza di sicurezza dalle masse ipersensibili e infantilizzate.
L’UE non può permettersi di perdere anche questo treno, pena la tenuta stessa dell’Unione: le minacce di sanzioni al Rwanda ribadite da Kaja Kallas appaiono velleitarie. La stessa Kallas conferma indirettamente il parallelismo fra Congo e Ucraina quando fa riferimento “all’integrità territoriale minacciata” nei due paesi. Per la UE che annulla le elezioni democratiche in Romania arrestando il presidente eletto e sostiene le rivoluzioni colorate in Georgia, non importa dove e a quale prezzo ci si scanna: ciò che conta è conseguire obiettivi vitali per la sopravvivenza stessa del sistema di potere al comando, a qualsiasi costo. Purché questo costo in vite umane e denari sia pagato da altri.
Come nella migliore tradizione della propaganda ai fini di depistaggio, se tutti parlano della crisi bellica ucraina per capire meglio cosa sta succedendo converrebbe guardare alla crisi fra Rwanda e Congo. Mentre le pubbliche opinioni sedate dalla neo-lingua umanitaria dormono il sonno del malato terminale, nell’oscurità dei mercati paralleli creati dalle potenze occidentali si gettano le basi del conflitto permanente ed inclusivo.
Mattia Spanò